Secondo una ricerca del Cambridge Center for Alternative Finance la Cina sarebbe tornata a essere un importante hub per l’estrazione di bitcoin, il secondo al mondo dopo gli Stati Uniti. Secondo il report la ripresa sarebbe dovuta a una “improvvisa impennata delle operazioni svolte in segreto”. Un tempo il paradiso del mining delle criptovalute, il paese asiatico aveva visto la sua potenza estrattiva calare quasi a zero nell’estate del 2021, dopo un giro di vite delle autorità. Il divieto di attività estrattive era dovuto principalmente all’eccessivo consumo energetico e alle preoccupazioni per gli effetti sul clima - nonché a quelle legate al riciclo di denaro e alle attività illegali.
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La Cina punta a raggiungere la carbon neutrality entro il 2060, e le autorità del paese hanno più volte sottolineato come l’estrazione di bitcoin potesse rappresentare un ostacolo a questo obiettivo. Nel 2021, prima del divieto e del conseguente esodo dei miner verso altri paesi, tra il sessantacinque e il settantacinque per cento della potenza di calcolo (o hashrate) della rete bitcoin a livello mondiale si trovava in Cina. Le province interessate erano principalmente quattro: la Mongolia Interna, lo Xinjiang, il Sichuan e lo Yunnan. La prima ad aver intrapreso azioni per vietare le attività degli estrattori di criptovalute era stata la Mongolia Interna, che non aveva rispettato gli obiettivi climatici imposti da Pechino, e aveva dato la colpa al consumo di energia causato dal mining. La Mongolia Interna è una regione ancora fortemente dipendente dal carbone per le sue necessità energetiche.
Con mining si intende il processo che contribuisce sia alla creazione di nuovi bitcoin, sia al mantenimento del registro pubblico delle transazioni sulla blockchain. Si tratta di un’attività ad altissimo dispendio di energia. Una delle ragioni per cui la Cina è stata una meta così popolare per i miner era la disponibilità di fonti rinnovabili di energia, almeno in alcuni periodi dell’anno e in determinate regioni. “Il motivo per cui avevano a disposizione quella quantità di rinnovabili era che all’interno della Cina potevano spostarsi e ottenere energia idroelettrica durante i mesi estivi e poi, nei mesi invernali, usare il carbone”. ha spiegato a Euronews Next Alex De Vries, ricercatore alla scuola di economia e business dell’Università di Amsterdam e autore di uno studio sull’impronta ecologica delle criptovalute. Lo studio, pubblicato a febbraio di quest’anno mostra come le emissioni globali ogni anno dovute all’estrazione di bitcoin siano comparabili a quelle di una nazione delle dimensioni della Grecia.
Dopo il calo vertiginoso - anche a livello globale - della hashrate nell’autunno del 2021, vi sono stati chiari segni di ripresa: i livelli di potenza di calcolo prima del giro di vite in Cina sono stati ripristinati entro la fine dello scorso anno. Oggi vediamo che anche la Cina è tornata in carreggiata, con oltre il venti per cento di potenza di calcolo, seconda solo al trentasette per cento degli Stati Uniti. Lo studio presenta alcuni caveat, tra cui il fatto di non prendere in considerazione i miner che utilizzano reti virtuali private (VPN), ma gli autori indicano che queste possibili interferenze non minano la solidità dei risultati.
Fonte: Wired