Ogni startup sogna di diventare un unicorno, aggredire il mercato e diventare una superstar da un miliardo di dollari. Ma secondo le più prudenti stime oltre il 90% delle giovani imprese innovative fallisce nel giro di pochi anni, per incapacità dei propri manager o per difficoltà a scalare un business d’avanguardia. Idee e conoscenze che evaporano nel nulla, ma che imprese più grandi avrebbero potuto valorizzare se solo le startup avessero avuto la lucidità di mettersi in vendita prima del default. Per capire quando vendere Andrea Fosfuri, docente dell’università Bocconi di Milano, ha messo a punto con Ashish Arora e Thomas Rønde un modello teorico per studiare il timing giusto di una exit.
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“In questo studio – racconta Fosfuri in un colloquio con Wired – cerchiamo di capire quando una startup dovrebbe farsi acquistare. Ci sono due opzioni: subito, a un prezzo più basso, dopo l’iniziale sviluppo dell’idea; oppure quando si è già sul mercato, puntando a incassare qualcosa in più”. Nella realtà, emerge dalla studio, ci sono tre comportamenti tipici delle startup: cercare potenziali acquirenti entro i primi due anni di attività; lavorare sodo per portare un prodotto sul mercato senza pensare a vendere l’azienda; fare entrambe le cose. Secondo il modello di Fosfuri, “se un team può contare su founder capaci, che magari hanno già esperienza, la loro probabilità di fallire è più bassa e possono dedicarsi affinché lo sviluppo dell’idea diventi vera innovazione. Se invece i team sono meno capaci possono tendere a cercare subito un compratore per monetizzare l’intuizione imprenditoriale”.
“Chi resta al comando fallisce di più”
Il modello suggerisce quindi una grande consapevolezza di sé da parte dei founder. Una qualità non sempre innata nelle persone che possono tendere a sovrastimare le proprie qualità. E infatti, ragiona Fosfuri, la ricerca dimostra che “gli imprenditori che preferiscono essere al comando tendono a vendere più tardi e a fallire di più. Soprattutto nei primi anni voler controllare la tecnologia aumenta le possibilità di fallimento: bisogna essere in grado di valutare bene se vale la pena continuare nell’attività o se è meglio affidarsi a chi ha le risorse per scalare”.
Tendono a fallire meno le startup che possono contare su fondi di venture capital nel loro azionariato così come quelle che hanno una solida protezione della proprietà intellettuale. “Se posso accedere più facilmente al venture capital è più facile che io possa posporre la necessità di vendere, aumentando la possibilità di sopravvivere perché ho più soldi a disposizione ed evito errori di esecuzione. Se mancano i fondi è chiaro che vendere è l’unica opzione, senza risorse adeguate”, ragiona Fosfuri.
Possono posticipare l’exit anche i founder che riescono a proteggere con un brevetto l’idea: semplicemente, è l’assioma, le startup non devono preoccuparsi che altre aziende utilizzino le loro idee. “Ma se non si riesce a proteggere bene l’idea diventa difficile vendere subito e c’è il rischio di perderla anche se è buona”, mette in guardia Fosfuri.
L’acquisizione come spinta alla crescita
Essere acquistati da una grande azienda “mette un boost alla crescita della startup”, sottolinea il docente, che guarda sempre alla stragrande maggioranza delle imprese che falliscono e non alle pochissime che finiscono nelle top-ten. Ma acquistare subito fa anche bene alle grandi coroporation internazionali. Qualche esempio: “Guardiamo il caso Microsoft: negli anni ha acquistato tantissime startup con appena due o tre anni di vita spendendo 50, 100 o 200 milioni di dollari. Altre le ha comprate anni dopo a prezzi decisamente molto più alti” (come Linkedin, pagata 26,2 miliardi di dollari nel 2016).
“Non tutte le imprese sono capaci di comprare startup appena nate, ma se aspettano il rischio è di pagarle a un prezzo più alto. Google – continua Fosfuri – ha comprato Android nel 2005 per 50 milioni di dollari; anni dopo ha speso 4 miliardi per Nets…”. Per i founder di Android è stato un fallimento? Non è detto: “È vero che la startup comprata subito dopo la fondazione ha un prezzo molto più basso e quindi meno guadagno per i fondatori. Ma molte falliscono prima e al dopo bisogna arrivarci: se Android non fosse stata acquistata da Google forse non sarebbe diventata ciò che oggi”, osserva il docente, vista la necessità di capitali, dati e diffusione capillare per essere scalabile nel mondo.
Quindi, quando vendere?
Se si ha una startup tra le mani cosa è necessario fare? Il modello teorico di Fosfuri, Arora e Rønde non dà consigli agli imprenditori, ma qualche indicazione arriva dal docente Bocconi. Innanzitutto, punto primo, “è necessario valutare la capacità del team per evitare grandi errori: ci può essere del valore nella startup, ma se si hanno le capacità per sviluppare il prodotto rischia di perdere tutto. Allora meglio vendere subito”. Punto secondo, quando le risorse sono limitate “bisogna decidere esattamente cosa fare: scegliere se si punta a vendere nel giro di un biennio o se ci si vuole concentrare sull’idea. Fare male entrambe le cose può generare inefficienza”.
Terzo: “Proteggere l’idea. Idee non sufficientemente nuove o imprese che non possono permettersi l’iter legale per ottenere un brevetto rischiano di veder sfumare tutto se qualcuno si impossessa della stessa intuizione. Se si crede fortemente nel progetto e non si vuole vendere allora meglio iniziare subito la produzione, ma il rischio di fallimento in questo caso è molto, molto più alto”. Infine, quarto e ultimo punto, cercare il sostegno del venture capital con gli investitori che, insegnano le grandi startup della nostra epoca (Netflix su tutte), permettono di limitare gli errori, dare ossigeno e prospettiva. “Certo – chiosa Fosfuri – è più facile avere il sostegno del venture capital se si può contare su un proprio brevetto…”.
Fonte: Wired